Dolomites. Il parco sentieristico “Terre Alte” di Lozzo di Cadore
DOLOMITES
a cura di P. C. Begotti e E. Majoni
LXXXVI Congresso della Società Filologica Friulana – Pieve di Cadore 20.IX.2009
Società Filologica Friulana, Udine 2009
F.to 21×23 cm – 638 pp.
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Questo mio contributo compone, insieme a quelli di tanti altri autori, la prestigiosa pubblicazione Dolomites, edita dalla Società Filologica Friulana in occasione del suo 86° congresso, svoltosi a Pieve di Cadore il 20 settembre 2009, a 90 anni dalla sua costituzione.
Il Parco Sentieristico “Terre Alte” di Lozzo di Cadore. Storia recente di un secolare passato.
L’imprinting.
Irresponsabili! Con questo appellativo definiremo oggi quelle mamme che, localizzando l’esempio a Lozzo di Cadore, lasciassero salire i propri figli di 10-12 anni, da soli, a Pian dei Buoi partendo in paese. Ma le nostre mamme erano così: “negligenti, superficiali, quasi prive di scrupoli”. Avevo da poco superato gli esami alla fine della quinta classe elementare. L’esito era stato lusinghiero tanto che, come ricompensa, mio padre iniziò a farmi passare qualche ora do n botega (falegnameria). Era certamente più un gioco che un lavoro ma intanto, nell’intendimento educativo paterno, avrei iniziato a familiarizzare con un certo tipo di visione del mondo. Gli accordi erano questi: la mattina era per me, ma verso le due del pomeriggio (ricordando con ciò l’orario d’entrata al doposcuola) avrei dovuto presentarmi n botega per rimanervi fin che no ero stufo. Compresi quasi subito che non avrei potuto stufarmi tanto celermente.
Per noi giovanissimi Pian dei Buoi rappresentava una nuova frontiera, da scoprire e colonizzare, né più né meno del mitico Far West che iniziavamo a conoscere con le prime trasmissioni televisive di Rin Tin Tin (per i più grandicelli c’erano i fumetti di Tex Willer). Certo, avevamo già sperimentato la vita libera e selvaggia sui prati che lambivano le nostre case, lungo i quali scorrazzavamo come puledri; nessun angolo di Ronzìe, Filuói, Revìs ci era ignoto, e i più audaci di noi erano giunti fino a D’Aósto, ma qui si erano fermati.
Non mi ricordo esattamente come maturò in noi l’idea di andare da soli a Pian dei Buoi, ma se tutti affrontammo l’ostacolo “mamma” la cosa non ci doveva apparire tanto fuori luogo. Fu così quindi che affrontai la mia: «noi, domenia che vien, se volarae dì a Monte …». Una madre coscienziosa d’oggi non ha scelta: «te lo scordi». Le nostre invece partivano da altri presupposti: la vera preoccupazione non era il territorio, ma le “cattive compagnie”. Per cui loro, irresponsabili, controbatterono alla nostra richiesta con un: «con chi?». Non avevo altra risposta che «coi me amighe po…». Cui seguì un loro: «cuai?», a rimarcare che ciò che importava, primariamente, era la qualità della compagnia, non dove pensavamo di andare. Io ero il più giovane del gruppo e, forse perché avevo dato dimostrazione di essere già un ometto, recandomi n botega anche se per poche ore e quasi per gioco, venni ricompensato con un «va ben, ma vardé de esse cadó pa le zinche». Queste sì, che erano Madri.
Me la ricordo davvero quella domenica, cui ne seguirono molte altre; sei del mattino, provvista di pane da Bortoleto e su di corsa verso Pròu e Monte. 1000 metri di dislivello, più o meno tre ore di cammino sia lungo i quattro chilometri e mezzo delle curte, il sentiero che, salendo all’altopiano, attraversa o affianca per qualche tratto la strada militare, sia lungo i dodici sinuosi chilometri di quest’ultima. Questo fu il mio “primo incontro” con il Sentiero. Avevo già calpestato mille volte altri sentieri, quello dei Brustolade, per esempio, che giunge a D’Aósto. Ma quello che saliva a Pian dei Buoi, lo si percepiva dalla sua fattezza, doveva essere “particolare”. La definizione di le curte suona oltremodo riduttiva, ed entrò in uso solo dopo la costruzione, iniziata nel 1908, della strada militare, detta “del Genio”, che dal paese conduce ai Forti di Col Vidal.
Quella che ci accingevamo a percorrere era una delle due vie principali che permettevano (e permettono) di raggiungere la Monte, l’altopiano di Pian dei Buoi. Conosciuta come Strada dele Fede (nelle carte catastali Strada Boa delle Pecore) la mulattiera, dalla borgata di Pròu, tocca Le Spésse e poi Ròncole, sale a Larzéde, Vertafedèra e giunge infine alle porte dell’altopiano, in località Soracrépa, dirimpetto alla Vila de Nani Poa, per anni Rifugio Marmarole (ora chiuso). L’altra via è la Strada de Quóilo (Strada della Montagna nelle carte catastali) che collega il paese con la Casera dele Vace, passando nelle immediate vicinanze dei ruderi della stazione di monte della teleferica, presso il Pian de Formai. Mi ricordo che, nel tratto iniziale, le ombrose fustaie di Naro mi incutevano un certo timore, alleviato un poco dalla compagnia dei due muretti a secco, esito di un antico spietramento che, fino alla Bóa, delimitavano il corso della mulattiera. Il percorso aveva poi altri due momenti salienti, uno nell’attraversamento della stupenda faggeta delle Pale de Larzéde, l’altro nell’arrampicamento alla volta di Vertafedèra quando il senso dell’ascesa, in virtù dell’influenza rocciosa della vicina Croda dei Róndoi, ma soprattutto grazie all’irrompere solenne del turrito profilo dolomitico del Monte Ciarìdo, si fa prorompente.
L’ultimo momento, che permeava di sé poi tutto il resto della giornata, giungeva alla fine della salita nel punto in cui la Strada dele Fede si innesta nella Strada del Genio. Qui, dove lo spazio si dilata verso sud a dismisura, ci si lasciava alle spalle tutta la fatica per genuflettersi, quasi devotamente, di fronte al Re Ciarìdo. Ai miei occhi di bambino infatti, le propaggini orientali della catena delle Marmarole, gli ultimi gemiti di un urlo pietrificato che ha inizio 13 km più a ovest, apparivano come una divina muraglia di luce, di fronte alla quale il mio animo si sentiva smarrito. Credo sia stato per queste vicende giovanili che il “sentiero” è entrato così profondamente nel mio cuore.
La lenta maturazione in compagnia del nonno.
Nei successivi dieci anni, schematizzando il ragionamento e limitandolo al territorio di Lozzo, si affermò una sorta di diarchia: a valle esisteva il paese, a monte l’altopiano di Pian dei Buoi, collegati fra loro da un “corridoio” rappresentato dalla Strada dele Fede (con l’eventuale variante per Tamarì). Il territorio posto fra questi due poli, che pur attraversai in quel lungo periodo per innumerevoli volte ed in ogni stagione, era come se non esistesse.
Diventato più grandicello, attorno ai 14 anni, di tanto in tanto mi fermavo la sera insieme a nonno Tino con il quale parlavo delle cose più disparate. Dopo aver conseguito la maturità questa frequentazione sarebbe diventata più assidua. Era un attento ascoltatore dei “comunicati”, così continuava a chiamare, riandando ai tempi della seconda guerra mondiale, tanto i radiogiornali quanto i telegiornali. Quando andavo a trovarlo mi faceva sempre una sintesi, senza che fosse richiesta, delle più importanti informazioni della giornata; se però giungevo che era in corso il telegiornale spegneva subito l’apparecchio dicendo «nuia de nuou, le solite bale del nono».
Talvolta, quando ero stanco ed avevo bisogno di uno stacco, riuscivo ad incanalare la discussioni su temi che gli stavano così a cuore che zia Pina apriva la porta di casa e ci faceva segno di parlare più piano, redarguendoci con un «la dente che pasa nte strada pensa che fasede barufa!», mentre in realtà il nonno stava solo parlando con calore e trasporto. Prima che me ne andassi mi chiedeva «tórnesto doman?»; gli rispondevo quasi sempre «se poi …» ma spesso non potevo. Lui lo sapeva e mi rispondeva «tanto de ca no me movo». La maggior parte del tempo passata col nonno era dedicata alla raccolta delle parole che avrebbero dovuto costituire la prima ossatura del vocabolario della parlata ladina di Lozzo che mi ero messo in testa di realizzare. Oltre a raccogliere le parole in sé, mi interessava approfondire l’utilizzo di attrezzature e tecniche che mano a mano comparivano sulla scena per cui la discussione, infarcita da gustosissime digressioni che il nonno elargiva fin troppo generosamente, assumeva dimensioni “bibliche”; talvolta parlavamo per due ore filate ma non riuscivo ad aggiungere al vocabolario che cinque-sei parole; nel frattempo avevamo però approfondito l’utilizzo delle batadoire piuttosto che il sistema par fei su na velma che sea degna de esse ciamada velma.
Fu proprio ed inevitabilmente in occasione di queste nostre chiacchierate che fiorì d’incanto un mondo che, pur chiaramente rappresentato fino a quel momento, non ero riuscito a percepire subito nella sua importanza, risultando quindi opaco ai miei occhi. Qualsiasi argomento affrontassimo, legato alla storia di un tempo, fatalmente ci trovavamo a parlare di sentieri. Avevo preparato una semplice mappa sulla quale aggiungevo i segmenti di sentiero mano a mano che apparivano nei racconti del nonno; quando mi accingevo ad aggiungere un nuovo tratto lui accennava un sorriso che col tempo divenne quasi sarcastico. Gli avevo prospettato l’idea che mi sarebbe piaciuto ripercorrere quei sentieri, semplicemente per soddisfare una mia curiosità.
Sapere che là fuori esisteva qualcosa creato dall’uomo, per soddisfare le proprie esigenze, con cui non mi ero mai imbattuto, e che era parte integrante di quel “meraviglioso racconto” che il nonno mi stava facendo, aveva assunto i contorni di un “mistero” che sentivo il bisogno di indagare. La ricerca linguistica che avevo iniziato, aveva assunto in breve i connotati di un approfondimento sulla cultura materiale o, come la definii successivamente, sulla civiltà agricola della nostra comunità. Tuttavia cercavo (influenzato in ciò anche dall’impostazione dell’Atlante Linguistico Italiano che avevo iniziato ad usare come guida) di porre i vari elementi che emergevano in distinte “categorie”. Le batadoire e la farsora, con le attività ad esse connesse, individuano chiaramente due distinti ambiti di utilizzo. Per il sentiero non riuscivo a trovare una categoria adeguata. Non ci sono riuscito fino al momento in cui non ho capito che il Sentiero è, di per sé stesso, una categoria mentale.
Ad ogni tentativo di trovare per esso una definizione adeguata, cozzavo contro l’impossibilità di ridurlo a mero oggetto. In buona sostanza, dire come fa il codice della strada (art.3 comma primo n.48), che il sentiero è “una strada a fondo naturale formatasi per effetto del passaggio di pedoni e di animali” equivale a sentenziare che l’Uomo è un insieme di organi funzionali; così come per l’Uomo esiste una mente, una coscienza, un’anima, anche per il sentiero si può andare oltre, tratteggiando per esso un ambito più nobile. Chi ha a cuore il destino delle Terre Alte interpreta il sentiero come “un segno dell’Uomo”, più prosaicamente come “un segno dell’attività dell’Uomo nel suo tentativo di addomesticare la montagna”. Tutto ciò eleva il concetto di sentiero dal basso dominio semantico cui è relegato dalla definizione datane dal codice della strada, ma non basta.
Nella sua manifestazione fisica, cioè per così come lo vediamo, il sentiero è da me percepito come un adattamento del territorio (inteso come elemento attivo) ad una pressione sociale della comunità, sorta per soddisfare un primario bisogno di sussistenza. Questo bisogno collettivo (che scaturisce in un imprecisato momento delle vicende storiche passate) guida poi le singole indeterminate individualità a tracciare sul territorio una primordiale via, che diventerà la giusta via, e quindi il Sentiero da tutti unanimemente riconosciuto e rispettato come tale (nei secoli), solo quando la collettività, nel suo insieme, avrà così deciso. Nella genesi del sentiero la comunità si comporta quindi come un organismo sociale dinamico, che manifestamente si priva di un leader decisore, ma che, ciò nondimeno, è in grado di dare dimostrazione di espressione diretta di una volontà (volontà o coscienza collettiva).
Il mio sforzo di nobilitazione del sentiero mi spinge ad evidenziare qui qualche altro concetto, la cui descrizione però devo rimandare ad un altro momento. Che dire, ad esempio, del sentiero inteso come “condivisione millenaria di passi” (i sentieri della monticazione, spingono le loro radici così in profondità da poter legare fra loro due millenni; se questo orizzonte temporale ci appare troppo avventato, possiamo optare per una più rassicurante “condivisione plurisecolare”, basterebbe fare riferimento al periodo regoliero). E ancora: è possibile immaginarlo come un corridoio che collega due frammenti di vita? (immaginate due frammenti di vita qualsiasi, che possiamo chiamare ciasa e dì a spine , legati fra loro dal sentiero). E infine, può essere pensato anche come un canalizzatore di eventi, un imbuto che ha raccolto, vedendoli passare, mille accadimenti. Un esempio: i ritrovamenti archeologici di Lozzo di epoca pre-romana e romana mi spingono ad immaginarmi la vita della nostra gente a quei tempi. Se penso ad un centurione romano, faccio però fatica a collocarlo in un determinato luogo del paese.
Quando invece percorro la Strada dele Fede, mi immagino senza alcuna fatica che, se mai Attila fosse disceso da Pian dei Buoi con le sue orde di barbari, avrebbe calpestato lo stesso sentiero, avrebbe dovuto appoggiare i propri piedi in quei 120 cm di terreno che costituiscono la larghezza della mulattiera. Ma lasciando stare Attila, quante volte le vite di nonno Tino, Nani dele Paule, Fiori Fassìne e migliaia di altri nostri paesani si sono avvicendate su questo sentiero?
Le relazioni tra sentiero e “civiltà rurale”.
L’economia dei territori alpini (economia intesa come il complesso delle risorse e delle attività connesse alla utilizzazione delle medesime) è sostanzialmente descrivibile utilizzando il modello agro-silvo-pastorale ad integrazione verticale. Va chiarito immediatamente che la componente “pastorale” di questo modello dà conto solo delle attività “di monte” legate all’allevamento (zootecniche), ossia quelle più specificamente connesse alla monticazione e quindi al pascolo. Abbandonando per sempre la “filosofia”, vorrei cercare di mettere a fuoco, brevemente, le necessità materiali (pratiche) per le quali la nostra civiltà agricola ha avuto bisogno dei sentieri per potersi sostenere ed evolvere. Le attività zootecniche “di valle”, in particolare la stabulazione invernale, sarebbero quindi comprese nella componente “agro”, che fa riferimento esplicito alle attività agricole (in questo senso il modello più consono troverebbe espressione nella dicitura “zoo-agro-silvo-pastorale”).
Il mantenimento degli animali nella stalla richiedeva infatti un elevato consumo di foraggio che, stante la lunga stagione invernale, doveva essere necessariamente prodotto e stivato durante il periodo vegetativo. La fienagione, attività che permette il razionale utilizzo della risorsa erba, in questo contesto fa quindi parte delle più generali attività agricole. Il modello fa poi riferimento alla “integrazione verticale”, ossia alle modalità di utilizzo delle risorse, primariamente l’erba foraggera, mano a mano che lo sviluppo del periodo vegetativo, chiaramente legato e condizionato dall’estensione altitudinale, ne consente lo sfruttamento. Per la comunità di Lozzo di Cadore il ricorso all’integrazione verticale, lungi dall’essere un’opportunità, è stata da sempre una necessità vitale. L’aggregato urbano centrale del paese poggia infatti su di un terrazzamento relativamente pianeggiante, prospiciente e degradante, più o meno dolcemente, verso il corso della Piave. Ma già l’abitato della borgata di Medavila si eleva su pendio, inizialmente dolce, che poi si accentua salendo verso la borgata dei Danèla e ancor più giungendo a Pròu, dove si smorza, tra la chiesa di S. Rocco e la Piaza dele Faule.
L’organizzazione territoriale della nostra comunità era quindi costituita da un nucleo urbano, inframezzato dagli orti, cui seguiva una fascia altitudinale fra i 200 ed i 250 m di terreni dedicati alla coltivazione campestre (i campi) il cui limite superiore lambiva, superandola in qualche rara occasione, la quota di 1000 m; si consideri che la ex chiesa parrocchiale di S. Lorenzo è posta a quota 753 m mentre quella di S. Rocco, a Pròu, a 810 m. La diffusione delle zone a coltivo era fortemente influenzata dall’acclività dei pendii, non essendo sostanzialmente praticata dalla nostra gente, peraltro, la tecnica del terrazzamento al fine di ottenere nuove superfici coltivabili. Dai 1000 m di quota fino all’orlo dell’altopiano di Pian dei Buoi, in prossimità dei 1800 m di altitudine, si succedeva poi l’ampia fascia di territorio destinato alla fienagione. Tale fascia era punteggiata di aree boscate destinate allo sfruttamento del legname (la componente “silvo” del modello visto precedentemente).
In questo caso la dislocazione delle aree non era influenzata tanto dalla pendenza dei versanti quanto dalla loro esposizione; ecco quindi che le fasce boschive di grande rilevanza erano quelle con esposizione prevalente a nord (la Petorìna, Pala dela Porta, le Tape, Val Zalìna, Pala Mariola, Somòl, Cianpeviéi, Bagnórse, Val Sàlega, Val da Rin), mentre i versanti con esposizione sud, per esempio Dassa che oggi è completamente boscata, una volta erano regolarmente falciate, tondide come na feda o, meglio, come la cerica dei frate . Oltre la fascia dedicata alla fienagione, giunti ormai in prossimità dell’altopiano, si estendeva il vasto areale destinato al pascolo di sommità, alla monticazione o alpeggio che dir si voglia. In questo contesto, tutte le aree non boscate degradanti verso nord, comprese tra l’altopiano vero e proprio ed il Cason de Cianpeviéi, erano destinate a pascolo.
E’ facilmente intuibile che le sfide che il territorio pose ai nostri avi, furono per secoli sempre le stesse. E per secoli la nostra gente contrappose loro la medesima strategia, almeno fino al momento in cui non giunse, anche nelle nostre valli dolomitiche, l’impeto della rivoluzione industriale, ma questa è storia relativamente recente. In realtà le sfide non sono cambiate, il nudo territorio e l’alternarsi delle stagioni pongono oggi gli stessi problemi di un tempo, tanto che, se solo ci spogliassimo delle nostre corazze tecnologiche e tagliassimo i ponti col resto del mondo, d’incanto comparirebbe nuovamente, come unico modello sostenibile, il caro e vecchio agro-silvo-pastorale, ovviamente ad integrazione verticale. E quale altro “strumento”, se non il sentiero, poteva permettere una raccolta così estensiva, anche e soprattutto in termini altitudinali, delle risorse indispensabili alla vita della nostra gente?
L’ideazione del primo piano sentieri (1985-1990).
Ma torniamo in compagnia di nonno Tino, al momento in cui gli prospettai l’idea di ripercorrere i sentieri cui lui faceva continuo riferimento. «Te se mato, te va à feite mal, no te ciate pi nuia, forse chi che i còmoda ai cazador, ma ncuoi i va a caza co la gip (jeep) …». Non mi costava niente fare un salto sul posto e valutare com’era la situazione. Decisi che sarei partito dal Troi dele Ciaure che iniziava appena sopra la chiesa di Loreto. Capii subito che un conto era parlare in senso astratto del sentiero e un conto era scovarlo sul territorio. Ma, dicevo a me stesso, mi affiderò a dei punti noti dai quali ricostruirne il percorso.
Istruzioni del nonno: «te vas su dal tornante de Noni, … te passe duta la Viza de Loreto, te scavaze l Lavinà dela Ciusa, te passe l Valon, te te tien sote la Croda dela Zengia … se l fosse, no te podarae sbaliate gnanche a volé». Appunto: se l fose stou, ma no l era pì o almeno io non ero riuscito a determinarne la traccia. Il Troi dele Ciaure era utilizzato in tempi antichi per portare al pascolo gli animali minuti (capre e pecore) nella località di Cornon, nei cui pressi sorgeva l’omonima casera. Di quest’ultima troviamo la sua rappresentazione nel catasto napoleonico del 1817 al mappale n° 54 con la descrizione di “Pascolo con casolare” (l’estratto mappale è riportato fra i documenti messi a disposizione nel Museo della Latteria di Lozzo). Ci fu un momento in cui la casera di Cornon non fu più praticabile per cui gli animali, radunati ogni mattina al suono del corno, venivano sì portati a pascolare a Cornon, ma rientravano necessariamente in paese ogni sera. Nonna Serafina raccontava spesso di come la sua capretta (la me Sara), verso sera, ritrovando tranquillamente la strada di casa di ritorno dal pascolo, compariva sull’uscio della medesima, pronta per la mungitura.
Non potevo fare a meno di immaginare il pastore che, giorno dopo giorno, portandosi in località Costa, suonava il corno per avvisare la popolazione dell’imminente partenza del gregge. Radunati quindi gli ovini n zima la Riva de Brodevìn, partiva alla volta di Cornon. Non riuscivo ad accettare che quel piccolo pezzo di storia, quel sentiero che ora, in virtù del suo utilizzo descritto così amabilmente dal nonno aveva assunto un suo “preciso connotato”, svanisse dalla memoria della comunità, che pur lo aveva generato ed utilizzato per così tanto tempo. Mi ricordai di ciò che un mio insegnante all’ITI di Pieve, qualche anno prima, ripeteva ogni tanto: «Vi capiteranno cose nella vita che non potranno essere affrontate solo con la vostra intelligenza; in questi casi vi potrà essere di aiuto la tenacia e perfino l’ostinazione».
Non si trattava certo di recuperare la “stele di Rosetta”, ma sentivo che stava emergendo in me una “missione” da compiere che aveva una rilevanza “archeologica”. Con serena tenacia, dapprima individuai i tratti che il tempo non aveva completamente cancellato e poi li riannodai raccordandoli fra loro, finché non riuscii a portare “il mio gregge” a Cornon. Di tutto questo naturalmente feci partecipe nonno Tino che, mitigata l’iniziale e genuina soddisfazione, aggrottò le ciglia e sbottò, riferendosi ad altri sentieri: «ciò dime, chel de Val Sgriói elo ncora là …? Con questa frase, senza rendersene immediatamente conto, il nonno mi catapultò in una avventura che dura tutt’oggi. Venne il tempo della scoperta dei troi de Val Sgriói, de l’Aiàl, del Ciadinèl, de Costa Mula, dele Pale de Costabrén, de Pian de Ciasalì.
Ma emerse anche una nuova preoccupazione. Di questi sentieri avevo in qualche modo ricostruito il percorso, ma più di qualche volta, tornando per altre verifiche a distanza di qualche mese, ciò che avevo trovato era nuovamente svanito (i sentieri di attraversamento per esempio, per loro natura, sono facilmente fagocitati dalla vegetazione). Per restituirli alla nostra comunità, che io interpreto come organismo depositario del patrimonio di conoscenze create nei secoli dai nostri antenati, bisognava fare di più. Fu da qui, da questo assunto, che partì l’avventura che mi portò, assieme ad alcuni amici, nel periodo fra il 1985 ed il 1990, ad individuare, riaprire e segnare chilometri e chilometri di “vecchi sentieri”, tutti abbandonati, buona parte di loro quasi completamente svaniti. Durante questo lavoro pulimmo e segnammo anche quei sentieri che ancora resistevano nell’impari lotta contro “il ritorno del bosco” e che quindi, da quel momento, riassumevano in tutta la sua importanza il loro antico ruolo di collegamento fra luoghi.
Tre persone diverse, un solo ricordo.
Dedico questo breve lavoro al ricordo di tre persone. Innanzitutto a nonno Tino perché è con lui che è germogliata e si è poi affermata la voglia di salvare dall’abbandono la nostra rete sentieristica. Nonno Tino aveva un pregio enorme: se non sapeva una cosa non mi compiaceva inventandosi storielle, mi diceva semplicemente «ca no poi idate fiol, no sei». Ma si faceva in quattro andando a trovare gli amici di un tempo e chiedendo loro ciò che non sapeva, per raccontarmelo poi la sera.
E una sera mi accolse con una gioia inconsueta. «Son stou a parlà con Fiori Fassìne. Al me a dito che l te scrive do lui algo sui troi». Di lui mio nonno aveva una grande stima, si sentiva da come ne parlava. Fiori aveva prestato servizio per trent’anni, dal 1929 al 1959, come guardia boschiva e campestre comunale. Se sorgeva un dubbio al quale non riusciva a dare risposta il nonno mi diceva prontamente: «chieto l me fiol, parlo con Fiori, se no sa lui no sa nissun». E venne la sera in cui mio nonno mi consegnò, come fossero un testamento, le pagine scritte da Fiori. «L é à scrite lui, de so pui, par te». «L me à dito che l avarae acaro parlà con te. No l crede che sea calchedun che vo fei fadia par verde i troi de na ota. Bisogna che te vade à ciatalo». Di lì a qualche mese, nell’agosto del 1985, Fiori Fassìne se ne andò, senza che potessi ringraziarlo per quelle pagine scritte “per me”. Da qual momento esse diventarono davvero un “testamento spirituale” e trovarono poi posto nella guida ai sentieri di Lozzo di Cadore che, insieme a Giovanni De Diana e Francesca Larese Filon, pubblicai nel 1990.
Un passo di quelle pagine destò la mia attenzione, perché era in relazione al Troi dele Ciaure che avevo appena “riscoperto”. Fiori scriveva: “Sentiero che merita essere riativato, costruito dai militari durante la guerra, 1915-1918-. Che parte dal tornante della strada ex militare, sopra la casa, di Calligaro Lisetta Nanello, si alza, nel semipiano, e passa vicino al traliccio Dell Enel. E da quel punto, attraversa il bosco di Loreto, e passa in alto Lavinal della chiusa, e si arrampica sopra la Croda, detta Cengia grande, e va a finire sopra la Croda della Roiba. Dove allora fu costruito dai militari, una casermetta in legno, che serviva, per osservatorio, ed abitava n 20 soldati, fissi, a quel servizio. Poi da li, scendeva giù alle piazze di Cucagna, dove vi sono le Sorgenti di acqua. Poi proseguiva alla Pala di Somin e Cornon di Sopra”. Questo sentiero, secondo la descrizione che ne dava Fiori, ripercorreva nel primo tratto il Troi dele Ciaure, scostandosi da esso un po’ prima della Croda dela Zengia oltre la quale proseguiva parallelamente a quest’ultimo, ma duecento metri di dislivello più in alto.
Andai sul posto, trovai qualche traccia tra la Croda dela Zengia e la Croda dela Ruóiba, un tratto ben conservato da qui alle Piaze de Cucagna, poi nient’altro. Mi tornò in mente di nuovo il mio insegnante … Alla fine del primo piano sentieri (1985-1990), il Troi dele Ciaure aveva il n. 23, quello della Croda dela Zengia, segnalato da Fiori Fassine, il n. 14 (nel corso della riorganizzazione della rete da me intrapresa nel piano sentieri 2002-2004, ho unito questi due tratti formando l’Anello del Troi dele Ciaure). Un’altra persona con cui mio nonno di tanto in tanto si intratteneva su questi argomenti era Nani dele Paule. Reduce della campagna di Russia, in cui perse per assideramento le due principali dita del piede sinistro e le falangi delle altre tre, Nani era stato guardia boschiva comunale dal 1958 al 1964, ma conosceva a menadito il territorio anche per aver svolto per 10 anni il lavoro di boscaiolo ed aver fatto parte, per più di 20 anni, della folta schiera dei cacciatori.
Abitava a quattro passi dalla nostra casa per cui, sempre in presenza di qualche dubbio, il nonno mi diceva «doman fazo n sauto da Nani e co te torne te sei da dì». Con Nani passai personalmente parecchie ore, in particolare dopo la morte del nonno avvenuta nel 1989, durante le quali, oltre che di sentieri, parlavamo di molti altri aspetti della vita rurale da lui vissuta. Ecco, Tino de Benci, Fiori Fassìne, Nani dele Paule (1): queste sono le tre persone che sento di dover ricordare in questa circostanza, in particolare per tutto ciò che sono riuscito a fare nel corso del primo piano sentieri.
La realizzazione del primo piano sentieri (1985-1990).
Con “primo piano sentieri” mi riferisco a tutte le attività messe in atto dal 1985 al 1990 che, come ricordato precedentemente, mi permisero di tracciare, aprire, ripulire e segnare quella che ritenevo essere la rete sentieristica definitiva, ossia l’insieme della viabilità pedonale in esercizio tra la fine della seconda guerra mondiale ed i primi anni ’60. La maggior parte del tempo libero in quel lungo periodo fu dedicato quasi interamente alla riscoperta dei sentieri; alcune stagioni invernali, contraddistinte da precipitazioni contenute, non solo non ci furono di ostacolo, ma ci permisero di individuare più agevolmente i tracciati quasi svaniti. Scoprii infatti che le deboli precipitazioni nevose, in particolare le spolverate, sono di grande ausilio nell’individuazione dei percorsi quasi svaniti del tutto, rendendo incredibilmente evidenti orli e infossature, permettendo quindi una lettura del territorio altrimenti impossibile.
Man mano che il lavoro sul campo progrediva, maturava in noi l’idea che tutto quello che stavamo facendo avrebbe potuto essere documentato in una sorta di guida, nella quale dare anche una agile descrizione dei sentieri aperti e segnati. Si rese allora necessario procedere alla manutenzione anche della rete dei sentieri C.A.I. (più propriamente dei sentieri alpini regionali), che per quanto fossero a quel tempo percorribili, non si poteva certo dire che fossero anche ben segnati e soprattutto manutenuti. Ci accollammo quindi anche questo sforzo e decidemmo che, se la guida doveva uscire, bisognava cercare di farlo per la scadenza del centenario della costruzione del Rifugio Ciareido, quindi entro il 1990. Ci parve poi che, se uno di noi vi si fosse dedicato con costanza, anche l’ipotesi di realizzare una carta topografica alla scala di 1:10.000 era alla nostra portata.
Si dice che la fortuna aiuta gli audaci e così è stato perché una giornata d’agosto del 1990, in una Milano lasciata deserta dalla gente fuggita in vacanza, consegnai il materiale e verificai i primi provini delle fotolito. Poco prima della fine di quell’anno pubblicammo la “Guida all’altopiano di Pian dei Buoi e ai sentieri di Lozzo di Cadore” (320 pp. ft. 13 x 19 cm) accompagnandola con la non meno importante “Carta dei Sentieri di Lozzo di Cadore” (86 x 68 cm). Fu una sfida nella sfida. Non ci fu momento libero, in quel lungo 1990, in cui non fossimo impegnati in questo grande progetto, il cui completamento stava finalmente per profilarsi, così come poi avvenne. Il nostro impegno ci aveva consentito di consegnare alla nostra comunità un patrimonio storico e culturale altrimenti destinato all’abbandono.
L’ideazione del secondo piano sentieri (2002-2004).
Negli anni seguenti (fino all’inizio del 2002) continuai ad interessarmi alla rete dei sentieri ma spostai la mia attenzione sui punti panoramici di grande rilevanza e sui “luoghi blu” (così avevo iniziato a chiamare tutti i luoghi da cui sorgeva, in qualche modo, l’acqua) sparsi sul nostro territorio. Stavo pensando a due percorsi che avrebbero messo a contatto l’escursionista con queste particolari valenze: “Il trekking dei Panorami” ed il “Trekking delle Sorgenti”. Questa idea era sorta in me come possibilità di sfruttare in chiave turistica il bene prezioso e realisticamente magnifico rappresentato dal paesaggio che veste i nostri luoghi. Quel “fazzoletto” di terra rappresentato dal territorio del mio comune, poco più di 32 km2, poteva essere strutturato per “raccontare il paesaggio dolomitico”, dalle sponde della Piave alla punta del M. Ciarìdo.
Affascinato da questa idea disposi idealmente davanti a me stesso tutto il materiale e le osservazioni raccolte in quegli anni, sezionai la rete sentieristica pezzo per pezzo ridefinendo 15 “nuovi percorsi”, ognuno dei quali doveva avere alcune caratteristiche peculiari tali da costituire, per l’escursionista evoluto, un’attrattiva naturalistica degna di essere visitata. Si era attivata in me una “bussola” che orientava il mio ragionamento in termini di “prodotto turistico”: sì, quello che stavo progettando poteva diventare un vero e proprio “prodotto turistico qualificato”, con un’offerta naturalistica di pregio integrata in esso.
Definii in “Anelli e Vie di Lozzo di Cadore” il nome che questo “pacchetto turistico” avrebbe avuto: 15 percorsi (13 dei quali ad anello, più appetibili dal punto di vista della fruizione turistica), che attraversavano il nostro territorio per una lunghezza complessiva di 56 chilometri. L’idea che la rete di antichi sentieri che la nostra comunità secolare aveva prodotto per garantire la propria sussistenza potesse ora diventare, strappata all’abbandono dal nostro intervento, un prodotto strutturato dell’offerta turistica lozzese, mi toccò profondamente.
Ritenni poi che, per questa iniziativa, sarebbe stato auspicabile avere l’appoggio dell’Amministrazione comunale, alla quale mi rivolsi (02.03.2002) presentando una breve relazione su ciò che pensavo di fare. Qualche giorno dopo mi incontrai con il sindaco Alessandro Da Pra ed il vicesindaco Giosuè Baldovin, che mi confermarono di aver fatto propria l’idea (non va dimenticato che in quegli anni era già in corso il declino delle attività economiche legate all’occhiale, fenomeno tutt’ora attivo, per cui le nuove iniziative in ambito turistico iniziavano ad essere percepite come necessarie). Convenimmo anche che il paese avrebbe dovuto presentarsi al nostro ospite con un suo preciso carattere distintivo, da sintetizzare in uno slogan che avrebbe dovuto “imprimersi” nella loro memoria. La scelta cadde su “Lozzo di Cadore, il paese dei Mulini e degli Antichi Sentieri”.
Per questo prodotto avevo previsto l’allestimento di una segnaletica stradale di primo indirizzamento oltre alla posa, perlomeno all’inizio e nei punti nodali di ogni percorso, di pali e tabelle. Inoltre ci sarebbe stato il bisogno di stampare un pieghevole che descrivesse succintamente gli anelli e riportasse una prima cartografia di riferimento al 25.000, alla quale sarebbe seguita una nuova carta topografica al 10.000. Le risorse finanziarie a disposizione della nostra Amministrazione non sarebbero state sufficienti; mi rivolsi allora, progetto alla mano, a Flaminio Da Deppo, presidente della Comunità Montana Centro Cadore che, valutatolo, mi assicurò la copertura finanziaria affinché il medesimo potesse essere ragionevolmente portato a termine.
La realizzazione del secondo piano sentieri (2002-2004).
Riaggregai il “Gruppo Antichi Sentieri” (che aveva già svolto il primo piano sentieri), chiesi l’appoggio della sezione di Lozzo del C.A.I. per avere a disposizione le somme stanziate (il nostro Gruppo non aveva le credenziali per gestire somme di denaro provenienti da istituzioni pubbliche) ed iniziammo le nostre attività. Si trattava di ripassare (dopo averlo fatto nel 1985-1990) sui 56 km di sentieri che individuavano gli Anelli, effettuandone lo sfrondamento e decespugliamento, oltre alla indispensabile risegnatura. Quest’ultima si rese necessaria perché mi ero finalmente deciso ad utilizzare per loro la nuova combinazione di colori bianco-verde, mantenendo la combinazione bianco-rosso esclusivamente per i sentieri alpini regionali.
Avviata l’operazione nell’estate del 2002, all’inizio dell’estate 2004, dopo 49 uscite, ultimavamo la realizzazione dei percorsi degli “Anelli e Vie di Lozzo di Cadore”; per l’installazione di tutta la segnaletica verticale (non necessaria alla percorribilità del sentiero), si dovette aspettare l’anno successivo, così come per la carta al 25.000 che ne descriveva i percorsi. Nel frattempo allestii il sito www.antichisentieri.org sul quale, oltre alla descrizione dell’attività del Gruppo Antichi Sentieri, misi online un primo abbozzo di descrizione dei singoli Anelli ed una loro sintetica galleria fotografica. Anche sulla stampa venne data notizia di questa nostra iniziativa e mi piace ricordare l’ampio servizio, firmato da Andrea Bressan, apparso il 12 settembre del 2003 sul Corriere delle Alpi, il cui titolo, “Gli angeli-custodi dei sentieri”, mi colpì fortemente. Quelle parole, infatti, coglievano pienamente e con grande limpidezza lo spirito che animava il nostro gruppo.
La nascita del Parco Sentieristico Terre Alte di Lozzo di Cadore.
Ritenevo, alla fine del 2003, di aver portato alla luce tutta la rete sentieristica esistente alla fine degli anni ’50. Mi sbagliavo. L’arrivo sulla scena di una persona che già durante l’anno precedente ci aveva dato un grande aiuto nelle varie fasi manutentive, era destinato a sovvertire le mie convinzioni. Piergiuseppe De Meio, per tutti Piero de Miò, porta con sè una conoscenza strabiliante del territorio, frequentato fin da piccolo accompagnando il padre boscaiolo, e poi praticando lui stesso questo mestiere oltre, naturalmente, alla caccia.
Personaggio dalla spiccata personalità, dal carattere forte, deciso e spigoloso, tende a vedere le cose o bianche o nere. Sa essere molto generoso ma dalla sua eventuale ira non c’è scampo. Quando elenca a memoria, come fosse un rosario, la successione dei proprietari dei terreni di una vasta porzione di foglio mappale, è impressionante. Anche lui ha il grande pregio, com’era per il nonno, di dire «no sei!» quando una cosa non la sa. Col tempo si è instaurata una reciproca stima, che ha fatto in modo che pian piano, senza forzature, talvolta mentre discutiamo assieme di come fosse la vita di un tempo, lui faccia cenno all’esistenza di un certo sentiero. Io annoto prontamente le sue indicazioni perché, in funzione degli impegni del periodo, possono passare anche più mesi prima che riesca a sottoporle ad indagine.
A me piace cercare i sentieri da solo, costringendomi così a frugare il territorio, salire scendere risalire, e ciò mi da modo di scoprire anche altri aspetti presenti su di esso. Quando poi, nonostante tutti gli sforzi, non individuo il tracciato, ci mettiamo d’accordo e andiamo insieme sul posto. Così è stato, ad esempio, per la bellissima strada da luoide che collega la Croda de Zopèl al Pian de Ciasalì, che ha resistito a quattro miei “assalti”. Ricorro all’aiuto di Piero tutte le volte che ho un dubbio, quando mi imbatto in un tracciato che non si manifesta subito come sentiero. Quando mi dà indicazioni specifiche, anche lui come il nonno, conclude con la fatidica frase «no te sbalie gnanche se te vo …». Salvo poi doverlo rintracciare al cellulare, quando possibile, per ulteriori ragguagli direttamente “sul campo”.
Con queste modalità d’indagine emersero dal territorio una moltitudine di tracciati che pian piano si sommarono a quelli già esistenti, ampliando notevolmente lo sviluppo chilometrico della rete. In breve capii che ai sentieri alpini regionali ed agli “Anelli e Vie di Lozzo di Cadore” avrei dovuto necessariamente affiancare una nuova e distinta categoria di sentieri, cui detti il nome di “Sentieri Minori”, per differenziare la quale fu scelto l’abbinamento di colori giallo-azzurro. La rete sentieristica a Lozzo di Cadore è oggi costituita quindi da circa 32 km di sentieri alpini regionali (altrimenti conosciuti come sentieri C.A.I.) segnalati in bianco-rosso, 56 km di “Anelli e Vie” segnalati in bianco-verde, circa 60 km di Sentieri Minori. Fra questi ultimi però, solo 18 km sono segnalati in giallo-azzurro, gli altri si trovano in uno stadio intermedio: alcuni aperti ma non segnati, altri tracciati in attesa di essere riaperti e segnati, altri ancora solo rilevati.
Questi ultimi due anni (2007 e 2008) li ho dedicati al completamento della nuova carta topografica alla scala 1:10.000, i cui dati geomorfologici sono tratti dalla cartografia numerica messa a mia disposizione dalla Regione Veneto. Su di essa ho sovrapposto i tracciati dei sentieri rilevati con metodo GPS, ho riportato tutti i tabià sparsi sul territorio (parte dei quali era sfuggita alla restituzione aerofotogrammetrica) identificandoli in esistenti, ruderi o svaniti a seconda del loro stato di conservazione, riportandone il numero mappale. Ho riportato anche tutte le emergenze di carattere storico come postazioni, gallerie, caverne e riservette relative al Parco della Memoria di Pian dei Buoi (Grande Guerra), oltre alla viabilità più rappresentativa del villaggio militare di Col Vidal.
Ho evidenziato poi i “luoghi blu”, cui ho dato cenno precedentemente, suddividendoli in cascate, sorgenti, specchi d’acqua superficiali (pozarache), abbeveratoi, fontane. Ho infine riveduto ed ampliato considerevolmente la toponomastica. Manca la collocazione dei muri a secco che accompagnano la Strada del Genio, la Strada dele Fede e quella di Quoilo, il cui inserimento avrebbe causato una perdita di leggibilità della carta. Ho riportato invece gli undici basamenti cui erano ancorate le cavallette della teleferica Le Spésse-Pian de Formai (anche in questo caso l’aiuto di Piero è stato determinante).
Personalmente credo che un insieme così strutturato di sentieri possa rappresentare a pieno titolo un “museo a cielo aperto” da valorizzare nelle sedi opportune. Non c’è un luogo in Italia, che io sappia, in cui la ricerca e la valorizzazione del sentiero si sia spinta ad un livello di indagine così appprofondito. Tutto ciò si è reso possibile per alcune caratteristiche peculiari del territorio di Lozzo: un’estensione ragguardevole ma nel contempo gestibile ed una ricchezza e varietà morfologica tale da stimolare, nel passato, lo sviluppo di una fitta rete sentieristica, unico strumento in grado di consentire il completo sfruttamento di ogni risorsa presente su di esso.
A questa rete così estesa e differenziata (150 km di sentieri per un’estensione di 32 km2), ho dato il nome di “Parco Sentieristico Terre Alte di Lozzo di Cadore” e la carta topografica che ho sommariamente descritto ne è la sua rappresentazione.
Alcune considerazioni conclusive.
Gli “Anelli e Vie” sono stati ripuliti e risegnati tra il 2002 ed il 2004; a distanza di cinque-sei anni la vegetazione sta lentamente riappropriandosi dei loro tracciati. Così è anche per i sentieri alpini regionali. Per questi ultimi la legge regionale n. 33 del 2002 indica nel C.A.I. l’associazione che ne deve garantire la manutenzione. Gli Anelli sono stati strutturati come parte dell’offerta turistica che Lozzo dovrebbe mettere a disposizione dei propri ospiti. Non ci si dovrebbe dimenticare che, per ponderata scelta degli Amministratori, Lozzo di Cadore dovrebbe distinguersi come “il paese dei Mulini e degli Antichi Sentieri”. Non so se l’Amministrazione che emergerà dalle prossime elezioni dimostrerà di essere interessata al mantenimento di un’offerta turistica di tale fattura, ossia rispettosa dell’ambiente e volta a valorizzare la nostra storia di comunità. Se lo dovesse fare, come mi auguro, dovrà tener conto che al volontariato, che ha creato tutto questo, bisognerà affiancare qualche risorsa di altro tipo che garantisca la manutenzione dei percorsi.
Per quanto riguarda i Sentieri Minori, il cui sviluppo è giunto oramai a 60 km, va sottolineato che essi assumono in sé il valore di una forte testimonianza del nostro passato. Sono convinto che vi siano ancora persone, genuinamente legate alle nostre radici ed al nostro territorio, rimaste finora in ombra. Ad esse mi affido affinché, anche per quest’ultima tipologia di sentieri, vi siano sempre degli “angeli custodi”, così come è stato finora. In questi anni ho tratto ispirazione e conforto dalle parole scovate da Emanuele D’Andrea, oggi presidente della Magnifica Comunità di Cadore, che nel 1990 mi fece l’onore di scrivere il contributo “I sentieri e il diritto: una consuetudine agricola e la sua funzione sociale”, che arricchì la guida, citata precedentemente, che quell’anno pubblicammo.
Tratte dallo Statuto Comunitario del 1451 della Magnifica Comunità di Cadore, specificamente dalla ristampa anastatica dell’edizione del 1693 al “Trattato 7 del Libro I cap. 57”, queste parole esprimono con semplicità, ma anche con forza, il valore essenziale assunto dal Sentiero, indicando al Marigo (il sindaco di allora), i suoi obblighi di fronte alla comunità: “Ciascun Marigo sia tenuto e debba sotto vincolo di Sacramento senza fraude et inganno procurare e fare il suo sforzo, che tutte, e ciascheduna strada, e via, et etiam le calle, orli, ponti che sono nelle sue ville e Regole siano tenute e curate, e comode …”.
Danilo De Martin
Note:
(1) Valentino De Martin detto Tino de Benci (16.08.1902-02.10.1989), Evaristo Fioravante Baldovin detto Fiori Fasìne (25.10.1899-05.08.1985), Giovanni Calligaro detto Nani dele Paule (09.08.1921-28.12.2008).