[…] Chi è che si può arrogare il diritto di attribuire a qualcuno “per sempre” un posto di lavoro che è per definizione pubblico?
Poco conta se ci si entra per concorso: un posto di lavoro che è pubblico (non di un datore di lavoro privato) dovrebbe comunque essere periodicamente messo in gioco (dieci anni?), attraverso concorsi volti a verificare se altri aspiranti hanno più titoli e capacità di coloro che lo stanno ricoprendo, al più con l’attribuzione di un maggiore punteggio a chi già lo ricopre con valutazioni positive in termini disciplinari e di efficienza.
Ragionamento che è tanto più pregnante oggi che il pubblico ha smesso di assumere e davvero non si capisce perché chi è fuori non possa aspirare a subentrare, se ha più meriti di chi c’è già
[…] Scrive, infatti, Patroni Griffi: “I doveri disciplinari dei [dipendenti] pubblici sono più forti di quelli dei privati e il pubblico che sbaglia deve pagare di più del privato perché ha tradito la fiducia dei cittadini non solo del suo datore”.
Un lapsus freudiano da manuale, rispetto a quello che voleva probabilmente essere il senso della chiusura della frase: la fiducia dei cittadini che sono il suo datore di lavoro. Il datore di lavoro dei dipendenti pubblici, infatti, sono proprio i cittadini, non lo Stato che ne è la mera espressione organizzata.
È, invece, proprio questa concezione dello Stato come entità sovraordinata e autonoma, che accomuna larga parte di coloro che hanno passato molto tempo della propria vita in posizioni apicali all’interno delle istituzioni, ad aver ingenerato il folle squilibrio tra pubblico e privato che sta oggi contribuendo in modo determinante ad affossare il Paese e che sta completando la trasformazione dei cittadini in sudditi.
O mutiamo la marea o ne saremo presto sommersi.
8 Giugno 2012
riflessioni sul pubblico impiego
territoriarchico governo-monti, pubblico-impiego, statali-vs-privati Gli Statali
[…] Chi è che si può arrogare il diritto di attribuire a qualcuno “per sempre” un posto di lavoro che è per definizione pubblico?
Poco conta se ci si entra per concorso: un posto di lavoro che è pubblico (non di un datore di lavoro privato) dovrebbe comunque essere periodicamente messo in gioco (dieci anni?), attraverso concorsi volti a verificare se altri aspiranti hanno più titoli e capacità di coloro che lo stanno ricoprendo, al più con l’attribuzione di un maggiore punteggio a chi già lo ricopre con valutazioni positive in termini disciplinari e di efficienza.
Ragionamento che è tanto più pregnante oggi che il pubblico ha smesso di assumere e davvero non si capisce perché chi è fuori non possa aspirare a subentrare, se ha più meriti di chi c’è già
[…] Scrive, infatti, Patroni Griffi: “I doveri disciplinari dei [dipendenti] pubblici sono più forti di quelli dei privati e il pubblico che sbaglia deve pagare di più del privato perché ha tradito la fiducia dei cittadini non solo del suo datore”.
Un lapsus freudiano da manuale, rispetto a quello che voleva probabilmente essere il senso della chiusura della frase: la fiducia dei cittadini che sono il suo datore di lavoro. Il datore di lavoro dei dipendenti pubblici, infatti, sono proprio i cittadini, non lo Stato che ne è la mera espressione organizzata.
È, invece, proprio questa concezione dello Stato come entità sovraordinata e autonoma, che accomuna larga parte di coloro che hanno passato molto tempo della propria vita in posizioni apicali all’interno delle istituzioni, ad aver ingenerato il folle squilibrio tra pubblico e privato che sta oggi contribuendo in modo determinante ad affossare il Paese e che sta completando la trasformazione dei cittadini in sudditi.
O mutiamo la marea o ne saremo presto sommersi.
(via Eutekne.info – Enrico Zanetti)
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