E’ da tempo che la CGIA di Mestre lo sostiene a gran voce, ora arrivano i dati di tre istituti internazionali (Banca Mondiale, Ifc e Pwc). Nel rapporto “Paying Taxes 2014″ diffuso in questi giorni emerge, infatti, che il peso complessivo di tasse e imposte in Italia è il più alto d’Europa, pari al 65,8% dei profitti commerciali contro una media scesa al 41,1% nel Vecchio Continente e del 43,1% nel mondo.
Insomma, l’Italia si conferma maglia nera in Europa per carico fiscale sulle imprese (total tax rate) tra i Paesi interessati dall’indagine che esamina i costi per imposte e tasse in capo a un’impresa e il connesso carico amministrativo per versamenti d’imposta e adempimenti vari.
Per gli adempimenti fiscali in Italia le società impiegano 269 ore all’anno contro le 179 ore impiegate in media da un’impresa europea e le 268 ore l’anno della media mondiale. In Italia le imprese effettuano 15 pagamenti contro i 13,1 europei e i 26,7 richiesti mediamente a livello globale. Il carico fiscale complessivo nel nostro Paese si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8% dei profitti commerciali, in miglioramento rispetto al 2012 (68,3%) contro una media Eu&Efta scesa a 41,1% dal 42,6% del 2012 e una media mondiale del 43,1%, in miglioramento rispetto al 44,7% dello scorso anno.
A farci compagnia nella classifica troviamo la Francia, con un indice di total tax rate di 64,7%, seguita dalla Spagna (58,6%). Tra i primi 10 Paesi al di sopra della media europea troviamo anche il Belgio (57,5%), l’Austria (52,4%), la Svezia (52%), l’Ungheria (49,7%), la Germania (49,4%), l’Estonia (49.4%) e la Repubblica Ceca (48,1%). Il minor carico fiscale in assoluto in Europa è invece quello della Croazia (19,8%) meno di un terzo rispetto a quello italiano, seguito dal Lussemburgo (20,7%) e da Cipro (22,5%).
(via CGIA)
3 Dicembre 2013
Gli effetti depressivi di una patrimoniale
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[…] Se tutte le imposte hanno affetto depressivo sull’economia, le imposte di entità straordinaria hanno un effetto straordinariamente depressivo. E non è finita qui: quando i beni sono collateral di prestiti, se si riduce il loro valore, le banche chiedono di rientrare, diventa necessario vendere ancora di più, aumentano le sofferenze. Una valanga. Inoltre quelle centinaia di miliardi, alla fine, direttamente o indirettamente, dovrebbero uscire dal circuito ed essere versate al Tesoro per ridurre di un pari importo il ricorso al mercato. Chi fornisce questa liquidità? E’ improbabile che le banche siano in grado di fornirla, solo una parte una parte sarebbe finanziata dal rimborso dei titoli di stato di loro proprietà che verrebbero rimborsati. Quello che è sicuro è che, tra tutto, si produrrebbe un’ulteriore restrizione del credito, proprio il fenomeno a cui si attribuisce la colpa della mancata crescita.
La patrimoniale è sprovvista di ogni ragione economica: sostenere che venga proposta solo per eccitare e quindi sfruttare l’invidia sociale, sarebbe tuttavia semplicistico. Il Corriere ha pubblicato un diagramma della Ragioneria Generale dello Stato che rappresenta, anno per anno, le tappe dell’avanzata della spesa pubblica: una disfatta. Chiedere ai cittadini di “svendere” parte del proprio patrimonio per metterne il ricavato nelle mani di quello stato di cui i suoi stessi massimi funzionari dimostrano l’incapacità a contenere la spesa, appare un’oscenità. E dire che ad agire sulla spesa si incontrano “difficoltà politiche”, implica che, per i proponenti la patrimoniale, tagliare sarebbe un’oscenità maggiore. Se la strada di chi è incaricato della spending review è ingombrata da “difficoltà politiche”, gli si dia responsabilità politica: da ministro potrebbe, all’occorrenza, “metterci la faccia”. Il mostro di Loch Ness non si farebbe più vedere: nessuno è mai riuscito a guardarlo negli occhi.
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